L’arancina è fimmina come le minne

Sicilian language arancini arancina

Ecco e così posso già chiudere il post, con una frase lapidaria, che tanto a questa diatriba isolana sull’arancinA/arancinO non c’è rimedio perciò io dico che è così e un messinese dirà e dice che così non è per niente.

Anni fa, nella smania di aumentare la mia collezione libresca senza piangere, mi andai a stampare la raccolta di racconti scritti da Andrea Camilleri ‘Gli arancini di Montalbano‘ scaricata aggratis da internet e stampata e spillettata decorosamente per non appizzarci gli occhi (e perché a me ‘sti libri che non esistono simpatia non ne fanno proprio). Due racconti tra tutti ricordo ancora, il piccolissimo ‘Montalbano si rifiuta’, di cui parlerò un’altra volta perché dice assai sul motivo per cui questi uomini, Vero e Inventato, sono amati e ‘Gli arancini di Montalbano’ appunto.

È ambientato sotto le feste, a Capodanno, e Salvo si rifiuta di raggiungere la fidanzata Livia in Francia per potersi mangiare gli arancini della sua cammarèra Adelina, una cammarera che lui non cambierebbe con nessuno, la mamma di due pregiudicati arrestati una volta no e due sì proprio da lui. Uno di questi giusto giusto viene arrestato per Capodanno e Salvo si butterà nelle indagini non tanto per aiutare lui ma per potersi mangiare gli arancini.

La questione però che volevo raccontarvi non è questa. La questione era che man mano che leggevo i racconti io pensavo al titolo e non potevo trovare pace per quegli arancini, con quella I che suonava come un’unghiata sulla lavagna. Ma com’è possibile che questo qua mi sparge vruoccoli e vastasi romanzi romanzi e poi mi italianizza le arancine??? Mizzica! Camilleri si è venduto così all’ignorante italiota? Io lo vedevo allora quasi come un tradimento perché ancora non sapevo nulla di questa grande guerra delle arancine.

Ma qualche tempo dopo ‘conobbi’ Fabbro. Lo metto tra virgolette perché io, in 5 anni che lo conosco, a Fabbro non ho mai stretto la mano ma parliamo parliamo parliamo e parliamo su Facebook, io da Trapani e lui da Messina, io gli conto i piagnistei miei e lui mi racconta le sfighe sue e ancora non ci siamo mai visti, metti che ci rendiamo finalmente conto di essere due rompiballe e non ci parliamo più. Con Fabbro, almeno una volta l’anno, il giorno di Santa Lucia (nella Sicilia occidentale, a Trapani e a Palermo, si usa mangiare le arancine di riso e la cuccìa di grano perché non si può mangiare la pasta e il pane in tale giorno ma in realtá è solo la scusa perfetta per sfondarsi di rosticceria.), si litiga per queste benedette arancine. Che lui chiama arancini. Ma che io chiamo arancine. Ma che lui insiste a chiamare con la I/O (come i somarelli mi verrebbe da dire 😀 ).

Sulla presente questione ci litiga tutta l’isola da sempre, Palermo, Trapani e la zona ovest di Agrigento le chiamano arancine, come piccole arance, la parte est dell’isola li chiama arancini, perché in dialetto siciliano arancia si dice ‘aranciu’…solo che le fanno a piramide, in onore del vulcano Etna (e perché mentre le mangi si aprono in un modo più gestibile e decoroso). Proprio qui potrebbe scattare la prima polemica dell’occidentale: ammesso che il nome giusto debba essere al maschile perché arancia in dialetto è aranciu, nel momento in cui la fai a cono l’arancia va a farsi benedire, no? Chiamalo Vulcanello!

Sull’argomento ci trovate blogs, articoli, migliaia di commenti e “sciarre”, quasi delle risse, perché se a Palermo lo declini al maschile si offendono (e pure io attacco con una conferenza femminista che non finisce più sul discorso dell’arancia e della forma e della panatura dorata e blabla) e la storica rivalità tra il capoluogo e la Sicilia orientale prende il volo e continua ben oltre la pallina di riso.

Purtroppo sulla paternità di questo ‘pezzo’ di rosticceria dalla ricetta antidiluviana c’è poco da capire, non risolve la questione del copyright e quindi c’è pure il problema dell’inventore che non è uno bensì un casino. La ricetta fu iniziata dagli arabi prima dell’anno 1000 o meglio c’era una volta l’emiro di Siracusa Ibn at Timnah che si fece creare il timballo di riso condito di zafferano e arricchito di erbe e carne per poterselo portare in giro durante le battute di caccia e poi arrivò Federico II, altro sovrano mangione la cui corte gli fece preparare il timballo con la geniale panatura fritta, che non faceva rompere la pallina (della grandezza giusta per giocarci a tennis o poco più, a meno che non andate al Bar Touring di Palermo che fa le arancine bomba) e ne permetteva una migliore conservazione durante i viaggi in giro per l’isola. Quando nella seconda metà dell’800 cominciò a diffondersi il pomodoro in cucina, i mangioni trinacrioti furono definitivamente rovinati e al riso e zafferano i monsù (da “Monsieur”), ovvero i cuochi francesi al servizio dei nobili siciliani, aggiunsero il sugo con la carne proprio al centro e fecero la palla di riso con sorpresa, ovvero l’arancina.

In Sicilia si fanno quelle classiche con il ragù e il burro a Trapani e a Palermo, con i pistacchi a Messina e poi in millemila varianti, a Trapani ho trovato quella ai frutti di mare e, gironzolando di città in città, con il cinghiale, con i broccoli e con il salmone. Esistono pure quelle alla Nutella coperte di zucchero e c’è chi pensa che una volta la versione dell’arancina di Santa Lucia fosse dolce, ma oggi sono considerate semplicemente un’eresia nonché immangiabili.

Forse sarebbe più giusto chiamarli al maschile visto che il nome è in dialetto ma io ho istruito tutti i miei amici del Continente sulla dicitura femminile perché è una piccola arancia e chissene se in dialetto l’arancia è un aranciu. Perché mangiare l’arancina è un’esperienza voluttuosa, è calda e tonda, quando l’addenti senti quello scricchiolio che ti da una piccola scossa ai sensi, con l’olfatto, con la lingua e col pensiero arrivi a quel riso profumato di zafferano, incollato d’amido ma con i chicchi ben distinti e poi finisci nel ripieno, in una soddisfazione quasi orgasmica che continua nei morsi successivi, dove ripieno, riso e panatura restano distinte ma nello stesso boccone e non sono tanti i piatti che ti danno un appagamento così complesso. Tu mi vuoi chiamare una cosa simile arancino?

Una volta il mio amico Lorenzo, grande appassionato di B-movie e della signora Fenech mi spiegò la sua devozione alla bellezza di questa donna ‘che ti guarderesti sempre per il semplice fatto che è fatta di carne vera, con quelle minne morbide e pesanti, che non c’entrano niente con quei seni al silicone alti e sempre sull’attenti, che appena li vedi ti sanno di ospedale e ti viene il mal di pancia‘. Non so perché mi sia venuto in mente lui mentre scrivevo ma parlare della voluttà di un piatto mi ha fatto ricordare la voluttà di certe parole e delle sensazioni che ci rimandano, a prescindere da quanto siano grammaticalmente corrette o educate, pronunciabili in pubblico, e alla fine a me l’arancina femmina piace di più, forse, probabilmente, è l’abitudine ma mi piace quel suono tondo e grande che finisce con la A, come le minne, che subito ti fanno pensare ad una consistenza umana e reale, di carne e morbidezza, ben più degli educati seni.

Non so come vi conviene chiamarla per non essere linciati sulla pubblica via, di certo se scenderete in campo a discuterne ci diventerete vecchi e non ne sarete venuti a capo nemmeno allora ma tanto l’importante è mangiarla e goderne, magari se avete tempo anche farla, nelle varianti che preferite, come faceva la famosa Adelina di cui sopra, che qui usa una ricetta diversa ancora, forse perché delle zone di Agrigento:

Adelina ci metteva due jornate sane sane a pripararli. Ne sapeva, a memoria, la ricetta. Il giorno avanti si fa un aggrassato di vitellone e di maiale in parti uguali che deve còciri a foco lentissimi per ore e ore con cipolla, pummadoro, sedano, prezzemolo e basilico. Il giorno appresso si pripara un risotto, quello che chiamano alla milanìsa, (senza zaffirano, pi carità!), lo si versa sopra a una tavola, ci si impastano le ova e lo si fa rifriddàre. Intanto si còcino i pisellini, si fa una besciamella, si riducono a pezzettini ‘na poco di fette di salame e di fa tutta una composta con la carne aggrassata, triturata a mano con la mezzaluna (nenti frullatore, pì carità di Dio!). Il suco della carne s’ammisca con risotto. A questo punto si piglia tanticchia di risotto, s’assistema nel palmo d’una mano fatta a conca, ci si mette dentro quanto un cucchiaio di composta e copre con dell’altro riso a formare una bella palla. Ogni palla la si fa rotolare nella farina, poi si passa nel bianco d’ovo e nel pane grattato. Doppo, tutti gli arancini s’infilano in una padeddra d’oglio bollente e si fanno friggere fino a quando pigliano un colore d’oro vecchio. Si lasciano scolare sulla carta. E alla fine, ringraziannu u Signiruzzu, si mangiano”. AMEN.

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5 pensieri su “L’arancina è fimmina come le minne

  1. Posso assicurare che il termine “ArancinA” non è una italianizzazione, in dialetto palermitano si dice “ArancinA”, sempre. Sono ultrasessantenne e posso assicurare che i miei 4 nonni palermitani, nati fra il 1878 e il 1894, parlavano solo in siciliano e dicevano “ArancinA”.
    Detto questo la diatriba palermitana/catanese sul nome è inutile, faccio tre esempi:
    – gli italiani dicono “Il Cairo”, gli egiziani dicono “al-Qahira”;
    – gli italiani dicono “Germania”, i tedeschi dicono “Deutschland”;
    – i palermitani dicono “ArancinA”, i catanesi dicono “ArancinU”.
    Chi ha ragione? Lascio alla Vostra intelligenza la conclusione.

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